venerdì 3 ottobre 2014

Da Ibou a Prince e Kun, la stranezza corre sulle maglie. Fino a Dio










© foto di Alberto Lingria/Photoviews










Dall’1 all’11. Netto, classico, semplice. Mica c’erano questioni di marketing, un tempo. L’1 era il portiere, il 2 il terzino destro e cos via. Si riconoscevano dai tocchi, i calciatori, mica dai soprannomi. Poi, questioni di commercio e d’introiti, sulle spalle apparvero lettere inizialmente accolte con cori di disgusto, poi assimilate ed assorbite dai pi. Chiaro, il numero ha sempre mantenuto la sua importanza, seppure Lupatelli abbia vestito il 10 al Chievo Verona e Zamorano l’1+8 all’Inter. C’ stata poi una novit, e qui s che siamo di nuovo all’eccesso dei tempi moderni: non pi nomi, pure soprannomi. Ed allora Ba, al Milan, aveva scritto Ibou. Boateng con Prince, Lassana Diarra con Lass, Kaviedes al Perugia con Kaviedez. Aguero pure col ‘Kun’ sulla maglia, Hernandez con Chicharito. Questioni di marketing, pi che di riconoscibilit, fattore poi ripreso anche dalla NBA e dalla NFL che aprirono direttamente ai soprannomi sulle jersey. I casi estremi? Ron Artest si fece cambiare il nome in Metta World Peace coi Lakers (ora, in Cina, vuole cambiare con Panda Friend all’anagrafe…). Chad Johnson, grazie al numero sulla maglia, cambi addirittura nome in Chad Ochocinco nel football americano. Ieri, in Dinamo Minsk-Fiorentina, un’altra curiosit. Tutta italiana, s’intende. Visto che Adama Diomand ha scelto di far risparmiare gli stampatori e di scegliere un soprannome ‘divino’. Dio. Rimpiangiamo i tempi di Vennegor Of Hesselink.




Da Ibou a Prince e Kun, la stranezza corre sulle maglie. Fino a Dio

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